09.03.2018
L’INGIUSTIZIA HA ANCORA UN AVVENIRE. IL MINISTRO BONAFEDE ED IL POLLO DI TRILUSSA.
“L’ingiustizia ha ancora un avvenire” scriveva nel 1957 Leo Longanesi.
Dopo poco più di cinquanta anni dalla morte dell’autore (ricorrenza trascorsa nell’assordante silenzio della c.d. intellighenzia) in Italia “L’ingiustizia ha ancora un avvenire”.
Si è da poco insediato il nuovo governo ed il ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, – che ha un cognome che ricorda uno dei principi cardine del diritto (quello, appunto, della buona fede, sancito dall’articolo 1375 del Codice Civile), – si è affrettato ad affermare che ridurrà i riti del processo civile, intendendo con ciò erroneamente affermare che uniformerà l’atto introduttivo del giudizio nella forma del ricorso, cancellando quella della citazione (l’atto introduttivo è cosa diversa dal rito).
Cosa strana per un avvocato civilista, quale dicunt essere il ministro, perché i riti del processo civile sono stati già ridotti, più di sette anni fa, dal Decreto Legislativo 1° settembre 2011, numero 150 (“Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, numero 69.”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Serie Generale, numero 220 del 21 settembre 2011, ed entrato in vigore il 6 ottobre 2011), e che non avrà alcun impatto sostanziale sul processo, potendo anzi contribuire ad allungarne i termini di avvio.
Non occorre, quindi, l’ennesima riforma del processo civile (ampiamente rimaneggiato negli ultimi venti anni), ma è necessario rendere veloce ed efficiente la risposta dell’autorità giudiziaria.
Se il ministro proprio non dovesse resistere all’idea di legare il suo nome (rectius, cognome) ad una modifica legislativa del processo civile, basterebbe aggiungere un semplice articolo al Codice di Procedura Civile, con il quale si stabilisca un termine perentorio per il deposito dei provvedimenti giudiziari (allo stato il termine previsto per il deposito delle sentenze è ordinatorio – articoli 275 (60 giorni), per il giudizio ordinario, e 430 (15 giorni), per quello del lavoro, di detto Codice –, cioè non produce decadenze, anche se la Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza numero 9250/2014, ha affermato che il magistrato deve osservare il termine per il deposito della sentenza e non si possono accampare scuse quando il ritardo supera del triplo i termini di legge), ed una sanzione, meglio se economica, a carico del giudice che non rispetti detto termine, la cui gravità dovrebbe essere rapportata alla durata del ritardo.
E’ evidente che il male principale che affligge la giustizia italiana (prescindendo dalla qualità delle decisioni) consiste nella sua endemica disorganizzazione e lentezza.
Non può dirsi civile un processo che si trascini per anni o che resti per anni in attesa di una decisione.
Per comprendere appieno lo stato dell’arte della giustizia civile italiana, al di là di posizioni preconcette ed ideologiche, occorre tenere presente una serie di fattori oggettivi e verificabili.
In primo luogo, è bene sapere che in un passato non molto remoto il contenzioso civile, pendente innanzi al Tribunale alla data del 30 aprile 1995, con la Legge 22 luglio 1997, numero 276 (“Disposizioni per la definizione del contenzioso civile pendente: nomina di giudici onorari aggregati e istituzione delle sezioni stralcio nei tribunali ordinari”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale numero 192 del 19 agosto 1997), è stato ampiamente sfoltito assegnandone la definizione a “Sezioni stralcio”, composte da mille Giudici Onorari Aggregati, tra le cui fila sono stati “reclutati” avvocati anche a riposo, magistrati a riposo, avvocati e procuratori dello Stato a riposo, professori universitari e ricercatori universitari in materie giuridiche.
Ciò ha comportato che ai Giudici Togati fossero riservati solo i procedimenti civili nuovi, quelli già assegnati in decisione nonché quelli per i quali era prevista la riserva di collegialità.
Con questa discutibile operazione di pulizia “etnica” (che ha creato cause di serie A, di competenza dei giudici togati, e cause di serie B, di competenza dei giudici onorari aggregati) la maggior parte del contenzioso pendente innanzi al Tribunale è stato sottratto alla decisione della magistratura ordinaria.
Era prevedibile aspettarsi dei benefici immediati in termini di efficienza del processo e velocità delle decisioni riguardo al “nuovo” contenzioso (in parole povere quello promosso dopo il 30 aprile 1995).
Dopo poco più di quattro lustri siamo punto ed a capo. Processi lumaca e decisioni in imbarazzante ritardo.
In secondo luogo, occorre considerare che altra rilevante parte del contenzioso civile è, da tempo affidata, all’Ufficio del Giudice di Pace (istituito con Legge 21 novembre 1991, numero 374), in via esclusiva per alcune materie e fino ad un determinato valore per altre (euro 5.000,00 per i beni mobili; euro 20.000,00 per la circolazione dei veicoli e dei natanti). Ufficio anch’esso composto da magistrati onorari (laureati in legge abilitati allo svolgimento della professione forense o che abbiano esercitato funzioni giudiziarie). Quindi, ulteriori cause sottratte al lavoro dei magistrati ordinari.
Attualmente si discute se aumentarne la competenza per valore, per “travasare” sullo stesso altra fetta del contenzioso civile.
In terzo luogo, esistono nei Tribunali e nelle Corti di Appello dei magistrati onorari (Giudici Onorari di Tribunale e Giudici Ausiliari di Corte di Appello, prevalentemente avvocati) che svolgono le funzioni istruttorie e decisorie.
Il ricorso a siffatto personale extra ordinem è in aumento anche per quanto riguarda i processi di esecuzione mobiliare ed immobiliare pendenti in Tribunale. Riguardo a questi ultimi (esecuzioni immobiliari) è da tempo prevista la figura del “professionista delegato alle operazioni di vendita” (avvocati, commercialisti, notai) che ha finito per sgravare moltissimo il carico di lavoro dei giudici ordinari dell’esecuzione.
In quarto luogo, vi è da considerare che da qualche tempo il contenzioso civile è in diminuzione, non per l’efficienza del sistema giudiziario o per l’applicazione di risibili sistemi deflattivi (mediazione preventiva obbligatoria; negoziazione assistita), ma, in parte, per la crescente sfiducia dei cittadini nello stesso (i quali, in parole povere, in molti casi rinunziano a ricorrervi) e, in parte, per i crescenti costi di accesso (i c.d. contributi unificati).
Per farla breve: processi in diminuzione ed in gran parte appaltati a magistrati onorari; tempi di definizione in aumento.
Anzi, nell’anno in corso ho constatato ulteriori preoccupanti ritardi.
Se tutto ciò è vero non si comprende come mai la giustizia civile sia ancora così lenta ed inefficiente.
Il ministro della giustizia, che è avvocato, dovrebbe conoscere lo stato dell’arte e concentrarsi più che sulla ennesima riforma del rito (rectius, della forma dell’atto introduttivo del processo) sulla riorganizzazione, o meglio sull’organizzazione, del sistema giudiziario civile, dettando direttive stringenti sul tempo della decisione del giudizio.
Tutto ciò monitorando costantemente la produttività dei magistrati, non affidandosi solo alla ermetica statistica complessiva dei Tribunali e delle Corti di Appello, per evitare di incorrere nel paradosso del pollo di Trilussa.
Avrà la capacità ed il coraggio – perché, qualora dovesse provarci, scatterà nella magistratura il riflesso condizionato dell’attentato alla sua autonomia ed indipendenza, – di mettere la parola fine all’inefficienza fisiologica della giustizia civile?
Lo spero, ma so che è prova ardua come quella di scalare una delle mitiche vette over ottomila. Un Everest, un K2. Non sempre si trova un Compagnoni o un Bonatti capaci di realizzare l’impresa.
Per il momento da avvocato gli riconosco – secondo il fondamentale principio del diritto civile – la buona fede.
Tanto più, visto il cognome.
Aspetto, però, urgentemente che dimostri in silenzio con i fatti la concretezza dell’avvocato e non cada nel solito bla, bla, bla del politico, a cui troppe volte gli avvocati “prestati” alla politica cedono il fianco.